L’intervista dell’ottimo musicista Dave Kilminster mi ha fatto riflettere. Devo premettere che, per vent’anni, ho sempre suonato e registrato senza utilizzare loops e campioni, e gli ultimi due dischi che ho registrato (gli amici qui su Accordo lo ricorderanno) sono stati composti per (e suonati da) un quartetto jazz. Ma la tecnologia viene usata, anche nel nostro campo, in modo sempre più esteso e forse, rimanendo attaccati ad un certo sound, non facciamo neanche granché bene alla Musica (lo dico da “colpevole”, avendo suonato solo jazz negli ultimi dieci anni). Non è possibile dimenticare che quello che adesso è considerato “standard” è stato, a suo tempo, rivoluzionario: la stereofonia dei Beatles, il bebop di Parker, il suono di “Satisfaction”, il movimento modale di Miles, gli “sheets of sound” di Coltrane, il fuzz di Hendrix. Il concetto stesso di “rock”, a mio modesto parere, implica una rivoluzione. Una rivoluzione che non può avvenire se rifiutiamo di contaminare la nostra musica con le nuove possibilità, le nuove prospettive. Il pericolo di rimanere “fermi” agli anni ’60 è reale. Ci sono ritmi che un batterista, per forza di cose, non può suonare; dunque, perché non usare una drum machine? Parallelamente, perché dovrebbe interessarci se una voce è artefatta, campionata, distorta? L’unica cosa che dovremmo chiederci è se “funziona” o no. Ultimamente ho ascoltato molto gli Atoms For Peace, perché credo che i loro loops e i loro strumenti elettronici diano vita ad una musica attuale e viva. Anche Jeff Beck ha fatto un ampio uso di drum machines in alcuni dei suoi dischi (penso al bellissimo “You had it coming”). Anche nell’ambito elettronico c’è dell’ottima musica e credo sia un peccato precludersi, a priori, la possibilità di farne l’esperienza.
Con gli strumenti "tradizionali" si può ancora fare grande musica, intendiamoci, ma probabilmente gli innovatori di domani spiazzeranno tutti usando anche qualcos'altro. |